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Io aspetto. Cosa? Un colpo di fortuna, un biglietto vincente, una telefonata, di veder passare sul fiume il cadavere di un nemico. Aspettare in una società del tutto e subito, immediato, come atto di resistenza. Io aspetto il mio turno in fila: alle poste, in autostrada, dal medico, una maledizione! Eppure è quello che facciamo per tutta la vita, forse bisogna prenderne atto e lasciare le nuove generazioni le stesse cose che hanno contribuito a costruire questo gigante d’argilla che è l’esistenza umana. Di sicuro ci sono tantissimi saggi più o meno con fondamenta scientifiche che ci spiegano cosa fare e come passare il tempo mentre aspetti, considerando l’attesa come qualcosa di errato, di evitabile, perché aspettare, per molti, significa solo perdere tempo.
Questo vale per noi adulti travolti dalla società isterica aggressiva passiva in cui viviamo, malati di ansie da prestazione perché dobbiamo portare risultati, risolvere problemi, pensare alle libertà effimere del falso progresso e farsene portabandiera. Per i bambini è diverso. Perché loro non danno importanza al tempo. Dura lo spazio di un gioco, fosse così tutta la vita!
Per cui pensate quanto possa essere prezioso un libro per bambini che vanno dai 3/ 5 anni, in cui si insegna che la vita stessa è aspettare. Le cose più importanti e preziose ci capitano mentre siamo in attesa ed evolvono con noi.
Questo libro esiste e si chiama.. indovinate un po’? Io Aspetto di Davide Calì e Serge Bloch, edizioni Kite. Un piccolo, ma prezioso libretto che in modo chiaro, semplice ed altamente commovente spiega la vita ai nostri figli. E sorpresa! Non sono i trofei, gli oggetti preziosi, la ricetta per il successo sul lavoro o con gli altri, a formare le cose preziose, ma tutte quelle che ci capitano e che per noi sono scontate, banali, a volte dolorose. Troppo. E allora eccole disegnate con tratti lievi le basi fondamentali della vita di ognuno di noi; aspettare il bacio della buona notte, che arrivi Natale, che arrivi l’estate, poi l’amore, di rivederla, di vincere la malattia, di sposarsi, di avere dei figli, una bella giornata per una gita , che la nostra amata sopravviva, il giorno del funerale, una chiamata dai figli, e infine una nuova vita in arrivo. In pochissime pagine e con delle frasi che hanno il dono di raccontare in modo essenziale i sentimenti di gioia, paura, dolore, felicità, questo libro rappresenta il modo giusto, sentimentale, emozionante per spiegare la vita ai nostri figli e ripensare la nostra.  Le tappe importanti che ci hanno arricchito, le atmosfere lontane e struggenti del Natale quando eravamo piccoli, la perdita delle persone che abbiamo amato, la vita che torna prepotentemente a illuminare le nostre giornate dopo tanto dolore.
Io Aspetto fa parte di quei libri per l’infanzia che hanno il coraggio di rivolgersi ai nostri piccoli senza creare campane di vetro, dentro le quali non entra nulla che possa sconvolgerli o farli riflettere su temi che (erroneamente) riteniamo validi solo per gli adulti. Invece ai bambini non va nascosto nulla. Bisogna solo adottare un linguaggio adatto per loro, per permettergli di comprendere eventi grandi e non sempre piacevoli. Sono libri che educano, offrono momenti di commozione per tutti, che fanno riflettere. Proprio per questo motivo noi abbiamo amato moltissimo questo piccolo, ma bellissimo libro. Perché spiega cosa significhi vivere e avere legami.  Perché ci ha toccato il cuore e accarezzato gli occhi con i suoi disegni basilari eppure così veri.

 

Un romanzo storico in cui i personaggi sono il punto di forza: ve ne innamorerete e soffrirete con loro.

Quante volte capita di trovare un libro perfetto? Dove neppure una frase o una parola sono fuori posto? Dove tutto scorre come deve scorrere e da cui non ti staccheresti neppure un attimo? Pochissime. Che io ricordi, recentemente, mi è successo con La tredicesima storia di Diane Setterfield e con l’assoluto Moby Dick di Melville. Sono pochi i libri del genere ma quando li incontri non puoi dimenticarli. Vorresti rileggerli appena chiusi e non faresti altro che consigliarli a chiunque capiti, anche a chi ti passa accanto per strada. Che poi non sai neppure esprimere bene il perché e stenti a capirlo persino tu.

Ma se provi a definirlo parti sempre dal modo di scrivere che è imprescindibile per designare un semplice libro come capolavoro (anche se ti periti sempre un po’ ad usare questa parola e, se lo fai, di solito, la sussurri). Ed Enquist scrive da Dio. Punto. Non c’è altro da aggiungere. Sa essere diretto, ironico, romantico, sensuale, coinvolgente, stimolante, sa creare suspense ed attesa. Il passaggio continuo dal passato al futuro degli avvenimenti che racconta è un espediente perfetto per tenere alta la tensione, per stimolarti ad andare avanti con la lettura, per farti partecipare della sorte dei personaggi.

I personaggi, appunto. Altro elemento fondamentale per amare alla follia un romanzo è quello di trovare dei personaggi che ti facciano venire voglia di conoscerli di persona, che sia per conversare con loro sorseggiando una tazza di tè o per innamorartene perdutamente o, semplicemente, per abbracciarli stretti perché comprendi perfettamente tutte le loro debolezze e fragilità. I personaggi di questo romanzo sono così. Perché io mi sono perdutamente innamorata di Struensee e della sua caparbietà e ho sofferto in maniera indicibile osservando re Cristiano VII, la sua viva intelligenza repressa, la sua dolcezza, la sua fragilità trasformata, a suon di punizioni corporali, in follia. E ho amato Caroline Mathilde, la regina, con la sua consapevolezza di essere donna ma, allo stesso tempo, con la sua sfrontatezza che diventa sfida nei confronti di chi utilizza il potere per reprimere ogni anelito di umanità. Tutti i personaggi che Enquist mette in campo sono estremamente veri, con qualità e debolezze di ogni uomo e, proprio per questo, impossibili da dimenticare.

Infine la storia. Un romanzo per appassionarti deve narrare una bella storia. Non che sia necessario, ci sono bellissimi romanzi che non raccontano assolutamente nulla ma… volete mettere una bella storia? Una di quelle che hai voglia di raccontare a qualcuno e che hai voglia di sapere come va a finire (ve lo dico subito: in questo caso malissimo! Uno dei finali più strazianti che romanzo possa avere…). E Il medico di corte è così: racconta una bella storia. Perché è la storia di un sogno, di un’utopia, destinata a scontrarsi con una realtà che fa di tutto per annientarla e, apparentemente, ci riesce. Ma si possono annientare le idee? E’ possibile farle morire come si fa morire un uomo? La risposta è tutta lì, nelle poco più di 400 pagine di questo meraviglioso libro.

Assolutamente da leggere.

L’esordiente Bernardo Zannoni  è l’autore di un libro assolutamente originale, che ambienta in un classico bosco da fiaba le amarissime dinamiche e consapevolezze del genere umano. Donandoci un’opera assolutamente cruda e dolente.

In un immenso bosco convivono uomini e animali. Il romanzo ci narra la storia di questi ultimi. In particolare ci soffermiamo sulle peripizie del protagonista Archie da quando è cucciolo fino alla vecchiaia. Esso nasce in una famiglia numerosa e in grosse difficoltà economiche. Il padre è stato ucciso da un uomo, la madre non è adatta a crescere i figli che vede come un peso. I pochi momenti di gioia dell’infanzia si concludono il giorno in cui Archie (per colpa di un banale incidente) diventa zoppo. Per questo motivo la madre lo vende in cambio di una gallina all’usuraio del bosco, la volpe Solomon. Dopo giorni assai difficili e violenti, il nostro Archie comincia ad abituarsi alla vita nel negozio della volpe e alla compagnia del cane Gioiele, usato da Solomon per spaventare o eliminare chi non paga i suoi debiti. Le cose prenderanno una piega inaspettata quando Archie scoprirà che la volpe sa leggere i libri degli uomini, uno in particolare che parla di Dio. La faina capirà il significato di morire, soffrire, vivere. Dovrà affrontare il desiderio di essere felice, amare, lasciare qualcosa di buono e la violenza spiccia dei forti sui deboli, l’abbandono e lo sfascio famigliare, la perdita dell’amore e il tentativo di sostituirlo con un altro, i trucchi meschini per sconfiggere i nemici e l’amore totale per Solomon.  Nel frattempo il bosco rimane indifferente alle sue gioie, ai dolori e agli stupidi intenti.

A volte capita di imbatterci in libri che non si concludono dopo la lettura. Opere in cui la parola fine ha poca importanza perché ci accompagnano quasi quotidianamente. Talora, mentre meno te l’aspetti, torni nei luoghi del romanzo, ti soffermi su una frase, un personaggio e devi far i conti col dolore e la speranza. Sono libri che ci garba definire importanti. Proprio come questa opera di debutto di Bernardo Zannoni. Costui con uno stile essenziale, preciso, palpitante e spedito ci offre una visione dolente, amara, cruda, ma non cinica dell’esistenza. Prendendo come protagonisti gli animali di un bosco e donando a loro alcune funzioni umane – fanno la spesa e altri lavoretti- ci parla del genere umano, di Dio (delle speranze che poniamo in lui), di amore persi e dei nostri stupidi intenti. Feroce e commovente, assolutamente da leggere.

Trovate il libro da noi in libreria oppure nello shop.

Una persona alla volta è il racconto intenso e appassionato di una vita dedicata alla cura delle vittime e alla difesa dei diritti. Una testimonianza che ci conduce nel cuore di Paesi martoriati, dove l’umanità è annientata dalla furia della violenza bellica e dove Gino Strada mette la sua esperienza di chirurgo al servizio dei feriti.
Gino Strada non espone la sua autobiografia né intende presentarsi come l’eroe che salva il mondo. Il fondatore di Emergency si fa piuttosto portavoce delle grida inascoltate delle vittime di guerre dove a morire sono persone innocenti, uomini, donne e bambini. Tanti, troppi bambini.
Dal Pakistan all’Etiopia, dalla Somalia alla Bosnia l’insensata sofferenza causata da armi letali e perfide porta in sala operatoria volti e corpi di esseri umani diversi ma martoriati con la stessa ferocia in ogni angolo del mondo. I luoghi visitati diventano occasione per denunciare la più infame delle scelte operate dagli uomini: la guerra. E Strada non ci risparmia nulla della sua esperienza che è un continuo incontro con ingiustizie inaccettabili, atrocità subìte dalle popolazioni inermi e terrorizzate. La sua posizione è netta, la sua scelta è priva di ambiguità: la guerra non potrà mai essere uno strumento di pace. Non si tratta di sbandierare al mondo le proprie idee pacifiste. Gino Strada lo dice chiaramente: non è pacifista, è contro la guerra. Non c’è altro da aggiungere. Affinché la violenza bellica sia tolta dal piatto delle scelte possibili è indispensabile una scelta davvero coraggiosa da parte dei governi e delle istituzioni ovvero smettere di investire negli armamenti. Gino Strada tocca anche le vicende della pandemia la cui gestione ha dato spesso più importanza al profitto che al benessere delle popolazioni. Quale futuro può esserci in un Paese che considera la spesa sanitaria pubblica una spesa da contenere piuttosto che un diritto da garantire a tutti? I governanti hanno alla propria portata uno strumento decisivo: sottrarre alle spese militari parte delle risorse destinate a questo settore. Strada ci ricorda che “anche di fronte agli enormi bisogni sanitari e sociali generati da questa pandemia, nel 2021 la spesa militare è aumentata rispetto al 2020. Dell’8 per cento, non spiccioli”. La lettura di queste pagine, impegnativa e dolorosa, è necessaria per risvegliarci dal comodo torpore in cui spesso ci rifugiamo quando pensiamo alle guerre lontane da noi le cui vittime ci sembrano di un altro pianeta. Per capire cosa è la guerra e quanto dolore provoca  sarebbe sufficiente seguire le istruzioni del vignettista Vauro: prendi la foto di uno scenario bombardato che mostra un bambino afgano senza una gamba e al posto della sua faccia, incollaci quella di tuo figlio.
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Ci sono libri che non puoi abbandonare. Non riesci a farlo neppure quando sei costretta a chiuderli e a interromperne la lettura per dedicarti a quella grande rottura di scatole che può essere la vita. Ecco, La cartolina è uno di questi libri. Grazie Anne per averlo scritto.

Una cartolina con solo quattro nomi: Ephraim, Emma, Noemie e Jacques. Il destinatario una donna morta da tempo.
E’ così che inizia l’avventura di Anne alla scoperta del passato della sua famiglia di cui ricostruisce vicende che nessuno le ha mai raccontato; non la madre, troppo immersa nei suoi studi e sempre evasiva quando parla della sua famiglia di origine; non la nonna con cui ha passato le estati della sua infanzia nella campagna della Francia del sud, sempre impegnata in qualcosa di pratico o in qualche faccenda in casa. Altri parenti Anne non ne ha perché la madre è figlia unica e la famiglia della nonna non l’ha mai conosciuta, sa solo che i suoi bisnonni e i suoi prozii sono morti durante la guerra nei campi di concentramento, qualcosa che a nessuno va di ricordare.
Anne, partendo da questa misteriosa cartolina, comincia così a scavare nel suo passato, a scoprire cosa significa, ancora oggi, essere ebrei anche se lei non ha mai frequentato una sinagoga né ha mai festeggiato qualcuna delle festività tradizionali del popolo ebraico.
La scrittrice Anne Berest si racconta in questo romanzo autobiografico senza paura né pudore; rievoca un passato doloroso che lei aveva sempre ignorato ma che non può essere ignorato perché è parte integrante della storia del secolo scorso e la storia è memoria che non si deve perdere, perché dal passato arriva l’antidoto per non commettere gli stessi  errori nel presente.
La scrittura della Berest è una di quelle che conquista, che ti permette di immergerti totalmente nelle sue atmosfere e di continuare a vivere nelle pagine del romanzo anche quando lo hai deposto per fare altro, anche quando la lettura si interrompe perché, nella vita, dedicarsi solo a immergersi nelle storie altrui non è possibile (magari lo fosse!). I personaggi di questo romanzo ti si incollano addosso e cominci a ragionare con loro come se fossero tuoi amici o familiari. Anche tu lettore vuoi assolutamente sapere di più della vita di Ephraim, Emma, Noemie e Jacques, anche quando quel sapere si fa troppo doloroso e vorresti ignorarlo. Perché non si può scegliere di non sapere, di ignorare certi eventi enormi e mostruosi perché, anche quando sembra impossibile, sono uomini come noi che li hanno compiuti deliberatamente.
La ricerca di Anne la porterà, non solo a scoprire chi ha scritto la cartolina, ma anche a capire di più di se stessa, delle sue scelte e della sua vita; le farà valutare in modo diverso il rapporto con la madre e quello con la figlia e scoprirà un senso di appartenenza a un popolo che, fino a quel momento, per lei era solo qualcosa che si studiava sui libri di storia.

Mantenere la promessa di indissolubilità del matrimonio dipende solamente dalla volontà dei coniugi? Oppure ci sono avvenimenti che vanno al di là di questa volontà? Jones prova a rispondere a questa domanda ma lascia a ogni lettore il suo margine di riflessione.
Una storia come tante potrebbe essere il sottotitolo di questo romanzo di Tayari Jones proprio perché di storie come quella raccontata, negli Stati Uniti, ne avvengono quotidianamente. Quello che qui fa la differenza è la profondità di analisi messa in campo dalla sua autrice, che scava in profondità nei suoi personaggi per far emergere le loro emozioni più nascoste e viscerali, anche quando queste emozioni sono tutt’altro che piacevoli e pacificate.
La storia, come dicevamo, è quasi banale. Due giovani sposi afroamericani si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato e Roy Othaniel Hamilton, il marito, viene accusato di uno stupro avvenuto nell’hotel dove la coppia ha pernottato. Nonostante Roy sia innocente, come troppo spesso capita in America, basta il colore della sua pelle a condannarlo. Roy si farà cinque anni di carcere da innocente, prima di riuscire a dimostrare la sua estraneità ai fatti avvenuti quel giorno.
Quando entra in prigione Roy è un uomo rispettabile, laureato, con un lavoro prestigioso, una casa e un’auto di proprietà e, soprattutto, una moglie di cui è innamoratissimo, sposata da appena un anno e mezzo.
Quando esce di prigione tutto quello che aveva costruito fino a quel momento è completamente perduto, compresa Celestial, la moglie, che non ha resistito agli anni di separazione e ha cercato di andare avanti buttandosi a capofitto nella sua carriera (Celestial costruisce opere d’arte che hanno l’aspetto di bambole) e in un nuovo amore.
Può un matrimonio sopravvivere a una distanza che non è solo fisica ma, soprattutto, all’esperienza di due mondi completamente diversi nei quali ci si ritrova a vivere?
La fedeltà coniugale può essere una condizione che non deve mai essere messa in dubbio nonostante la vita sia un processo di crescita continuo e nonostante gli sposi possano percorrere strade diverse (non necessariamente per scelta loro)?
Quello che è certo è che Roy esce di prigione con la precisa e ostinata convinzione di riprendersi Celestial, sua moglie, la sua donna. Ma si renderà presto conto che non tutto può essere preso con la forza.
Un romanzo scritto con maestria che non si ferma a raccontare la superficie delle vicende narrate ma che scava, approfondisce, lacera il velo del non detto, del non raccontato senza mai schierarsi da una parte o dall’altra ma cercando di capire le ragioni dell’uno e dell’altro.
La conclusione è nota al lettore fino dalle prime pagine ma quello che conta è il percorso lungo il quale l’autrice conduce il suo lettore.
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